“La scrittura non è mai esercizio ludico. A me ciò che è gioco annoia intimamente. Anche se ne capisco la necessità in ambiti diversi. La scrittura è ricerca, che supera il reale per approdare a verità logiche più o meno inconfutabili, lasciando un margine di discutibilità. Si scrive di ciò che è grave, che crea scandalo, angoscia, turbamento e altre categorie simili. I miei noir sono tematici, descrivono indagando argomenti che inquietano, che creano seri dubbi”, ha raccontato lo scrittore Antonio G. D’Errico in questa lunga intervista.
Benvenuto, Antonio! Il protagonista del tuo libro, il giovane Ernest, è stato vittima da bambino di ripetute violenze sessuali da parte dello zio. Come è stato scrivere di un tema così delicato? Come è nata questa idea?
La scrittura non è mai esercizio ludico. A me ciò che è gioco annoia intimamente. Anche se ne capisco la necessità in ambiti diversi. La scrittura è ricerca, che supera il reale per approdare a verità logiche più o meno inconfutabili, lasciando un margine di discutibilità. Si scrive di ciò che è grave, che crea scandalo, angoscia, turbamento e altre categorie simili. I miei noir sono tematici, descrivono indagando argomenti che inquietano, che creano seri dubbi. Ogni volta che si legge o si assiste a un fatto di cronaca grave, io non mi chiedo se ci sarà un commissario a risolvere il caso. Mi chiedo: “Se succedesse a me che cosa farei? Come reagirei?”. La mia risposta ce l’ho, rimanda a verità che non pertengono all’istinto. D’istinto si muove una bestia feroce. Un uomo si differenzia da una bestia per la sua umanità, che è connotata da un pensiero, che rimanda a una verità spirituale, universale, assoluta. Rimanda a Dio, e alla sua relazione con il Bene e il male assoluti! Ernest, il protagonista del romanzo, ha subìto violenza nella sua forma più drammatica, dalla persona verso cui nutriva fiducia: suo zio, appunto. Questa violazione del corpo e dell’anima diventa sigillo indelebile, insuperabile con i discorsi e i buoni propositi. Diventa vendetta e minaccia, che non lascia scampo. In un clima così fosco il pensiero è compromesso, la ricerca del protagonista è tesa all’individuazione di un colpevole, che deve pagare le colpe di tutto il male di un mondo corrotto e lontano dal Bene che necessariamente sviluppa e perpetua per un suo naturale errore o per una sua disposizione. L’idea di raccontare fatti tanto cruenti ha la sua ragione nella necessità di rendere immagini di certe distorsioni che possono toccare chiunque, per mettere in allarme le coscienze più fragili, più delicate, più incapaci di prevedere una sofferenza di questo genere. Mi piace immaginare che chi si avvicina a una lettura di un testo come questo possa comprendere in anticipo il rischio di certe perversioni che pure si insinuano nell’animo umano e riesca ad evitare le conseguenze funeste, sperando che abbia sempre tempo per chiedersi: “E se succedesse a me?”.
Un’altra figura di rilievo della narrazione è la zia del giovane traduttore, pittrice famosa e donna di grande bellezza. Cosa puoi rivelarci di questa donna e del rapporto col nipote?
La zia è la bellezza pura e chiara. È il rigore artistico. È il distacco con il mondo selvaggio che fa da sfondo a una contemporaneità che crea disagio e repulsione. È la sublimazione di un altro mondo che è racchiuso anche nel nome, Elsa, eco di classicità, di educazioni di una volta, portatrice di un’ispirazione che rimanda a modelli raffinati di una borghesia cortese e generosa di moti ideali, di attenzioni estreme per la vita in tutte le sue espressioni. È una donna che vive del culto della bellezza, ricercata nel gusto e nella cura della propria persona, senza atteggiamenti sprezzanti o spudorati. Nel suo mondo interiore trova spazio un sentimento affettivo e naturale rivolto a suo nipote, Ernest, della cui innocenza è assolutamente certa. Si riconosce in un certo modo in lui, nelle sue forme delicate, familiari. Ne apprezza l’intelligenza, l’ironia che sente simili alle proprie. È incuriosita anche dal suo lavoro, di traduttore di romanzi gialli. Il loro rapporto presenta un intimo legame attrattivo, un intimo piacere che non può degenerare, consapevolmente, verso alcunché di perverso, di losco. È la forma di amore più alta che la vita permette a entrambi, fatto di attenzioni filiali, di premure materne, senza nessun dubbio, senza nessuna titubanza. Questo amore rimane, all’interno del noir, come il vero respiro vitale di una realtà devastata dalla violenza e dalla morte.
Quali altri libri hai pubblicato?
Spazio notevolmente nei diversi piani di scrittura, andando dal noir, alla sceneggiatura teatrale, alla critica politica e musicale, alla poesia. Ho scritto, tra l’altro, l’ultima biografia di Marco Pannella, pubblicata quando il noto politico era ancora in vita. Il testo è scaturito da una serie di conversazioni avvenute tra me e Marco. Si intitola Segnali di distensione. In ambito musicale ho scritto, sempre sottoforma di conversazioni, la biografia di Eugenio Finardi, dal titolo Spostare l’orizzonte. Ho realizzato, incontrando a Napoli Nello Daniele, la biografia di Pino Daniele: Je sto vicino a te. Sempre incontrando degli artisti napoletani – cito Eugenio Bennato, James Senese, Tony Esposito, Peppe Barra – ho pubblicato con le edizioni Arcana il volume Per rabbia e per amore. Con Arcana ho pubblicato anche la biografia di Tony Cercola, un altro rappresentante della neapolitan power – il movimento di ricerca musicale partenopeo – dal titolo Per chi suona la buatta. Ho scritto la biografia di Donato Placido, attore, poeta e fratello di Michele Placido, che uscirà a breve presso l’editore indipendente Ferrari Editore.
A Donato Placido mi lega una lunga amicizia e una altrettanto lunga collaborazione che ci ha portato a pubblicare come coautori due sillogi poetiche, Preghiere di tutti i giorni e Zenit, e due romanzi: L’incontro e Montalto, Fino all’ultimo respiro. Con il secondo romanzo abbiamo vinto il prestigioso “Premio Grinzane Pavese”. Inoltre, ricordo la mia raccolta poetica, Amori trovati per strada, uscita l’estate di quest’anno, 2018, presso Controluna Edizioni, retta dal noto poeta e Direttore editoriale della Castelvecchi, Michele Caccamo. Con Morte a Milano. Ernest sono al mio quarto noir, dopo Il Discepolo, La governante Tilde e Red carpet in noir.
Ti è capitato di vivere il famoso “blocco dello scrittore”?
La vita è fatta di elevazioni e di discese, di momenti di riflessioni, di pause, di letture fondamentali per uno che voglia professarsi scrittore, e di tanto altro ancora. Ho avuto certamente dei momenti di pause, ma fatte di profonde meditazioni, in cui le idee hanno preso forma e contenuto, in cui si sono realizzate determinandosi ispirazioni e tensioni letterarie. Sicuramente nei miei giorni mi è capitato di fare tutte queste cose: sono salito e sono precipitato, mi sono fermato, mi sono bloccato e mi sono sbloccato. Ritengo che fermarsi faccia molto bene al respiro, che torna sereno e calmo dopo essere stato tumultuoso e affannoso.
Oltre a scrivere, cosa fai nella vita?
Insegno in un istituto superiore. Sono laureato in biologia. E l’insegnamento è stata una scelta naturale. Ho fatto ricerca in ospedale qualche anno prima, ma il richiamo della scuola è stato più forte. La scuola è il posto migliore per un animo che ha desiderio di crescere nella relazione con i suoi simili e nella conoscenza teoretica che rafforza lo spirito. Nonostante le tante critiche che si muovano alla scuola, io posso dire con certezza che questa è il posto in cui trovano ancora luogo i sentimenti umani migliori. Si dovrebbe ritornare tutti di nuovo a scuola per riprendere la crescita di un animo che evidentemente è stato arrestato nel suo sviluppo sentimentale. È una esortazione quest’ultima considerazione, ognuno ripensi a sé e al suo rapporto con la scuola: magari riscopre un senso di libertà di pensiero e di purezza di cui potrebbe avvertire ancora un’intima necessità.
Da lettore quale libri preferisci?
Schopenauer ha scritto tanto riguardo all’arte dello scrivere, del parlare correttamente; e ha anche dichiarato che adorava la lettura dei grandi pensatori rispetto ai libri alla moda del suo tempo. Io da lettore ritengo che un libro debba avere una causa necessaria, diversamente è un opuscolo come ce n’è di ogni specie. La causa necessaria la trovo negli autori classici latini e greci, da Esiodo e Omero a Ovidio, Orazio, nei lirici come Archiloco, Teognide, Saffo; e in altri, classici allo stesso modo, anche se più vicini a noi, a questo tempo, Hegel, Kant, Giuseppe Rensi, Sartre, Sciascia, Saviano. Ma la bellezza la ritrovo nella poesia, soprattutto, da Corazzini a Padre Maria Turoldo, da Caproni a Zanzotto, a Pasolini, Pavese e Moravia. Ne dimentico sicuramente altri, di grande saggezza, che recupero con rigore, come Musil, Svevo, Pirandello, Kierkegaard, Schiller, Swift, Brecht, Thomas e Heinrich Mann, Cecov, Turgenev. Sono autori che ho letto e amato per la loro sapienza, che rileggo, che insegnano e mi hanno insegnato con le loro profonde meditazioni.
Scegli una citazione che ti rappresenti.
Sono gli stati d’animo che rappresentano il nostro rapporto con i pensieri e le emozioni. E queste sono espresse nella poesia, come flusso istantaneo di una visione, che raggiunge la verità ultima dell’esistenza: “Ognuno è solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera.”.
Scegli una citazione che rappresenti il tuo rapporto con la scrittura.
Ricordo che la lettura del romanzo breve Tonio Kroger di Thomas Mann mi ha lasciato una grande suggestione sull’uso della lingua e delle relazioni tra la scrittura e l’esistenza, fatta di discordanze, di inadeguatezze, di destini tracciati. Tonio Kroger, attraverso l’autore, dibatteva tra sé e sé sulla necessità di un nome come quello: “Tonio!”. Avrebbero potuto scegliere i suoi genitori tra un’infinità di altri più consoni, tra cui Hans come il suo amico di infanzia, che gli avrebbe dato la giusta considerazione nel suo mondo, senza doversi giustificare e spiegare quella stravaganza e quella scelta azzardata. Ma Tonio, già con quella anomalia nel nome, arriva a spingersi nella scrittura di testi poetici dedicati a una ragazza amata inutilmente, Ingeborg. Riconosce in tutti quei segnali un destino ineluttabile. Alla fine cerca l’evasione, pensando di allontanarsi via mare dalla città natale, in rotta per la Danimarca. Ma per un errore, uno scambio di persona, rischia la prigione. Nella stretta della solitudine comprende che quel destino gli è stato assegnato e non può esserci altra via di fuga. Avrebbe dovuto capirlo prima, aveva ricevuto tutti i segnali: il nome, i tratti somatici e, soprattutto, il fatto grave che uno come lui si fosse messo a scrivere poesie: una vera e propria follia. E’ l’immagine di un passo del racconto che descrive bene il dubbio e l’ardore che colgono di soprassalto l’animo di chi cerca di concludere in una descrizione qualcosa che non può essere concluso: “Un canto al mare, infiammato d’amore, echeggiò in lui. Tu, amico furioso della mia gioventù, eccoci di nuovo riuniti… Poi però la poesia era finita. Restò senza conclusione, non prese forma precisa, non venne forgiata con serenità in qualcosa di compiuto. Il suo cuore viveva…”.
Grazie, Antonio!
Buona lettura a Voi tutti!