Dopo aver intervistato lo scrittore Pierluigi Cuccitto, ci siamo dedicati ad un approfondimento sul suo romanzo Il ragazzo in ritardo.
Ecco come ce ne ha parlato l’Autore:
“Il ragazzo in ritardo” è un romanzo di formazione, ambientato in un mondo fittizio ma molto simile alla nostra contemporaneità, Nandèra, dove un ragazzo narra la prima parte della sua vita, raccontando la storia di sé e della sua famiglia, con gioie e dolori annessi.
E’ orfano di padre, e ha una difficoltà, che lui chiama “Il Problema”, che è una sorta di difficoltà psico-motoria: nel mondo reale la chiamiamo “disprassia”, ed è una nota autobiografica di chi scrive, che da quando è nato convive con questo disagio che crea parecchie difficoltà nel settore pratico dell’esistenza.
Qui ne dò un accenno, a volte, mescolato con un’insoddisfazione per una società rapida e frettolosa, dove tutto si svolge in fretta, bruciando le tappe; il protagonista Charles Penguin, si definisce “storto” perché non riesce ancora a capire il problema che ha. Lo comprenderà man mano che passa il tempo, arrivando ad abbracciare la carriera di giornalista e scrittore, grazie a tutti gli anni passati ad affrontare sé stesso e i suoi “inciampi”.
La sua vita si intreccerà con quella di una strana ragazza, all’inizio “storta” come lui, ma per motivi diversi, e Charles arriverà a conoscere la storia della famiglia di lei, non meno complicata della sua. Essi si perderanno e si ritroveranno, uniti dall’amore per la musica di un cantante ispirato alla figura di Bruce Springsteen.
In più, intraprendendo la carriera di giornalista, sarà testimone delle vicende che ruotano intorno a due magistrati ispirati alle figure di Falcone e Borsellino.
L’AUTORE
Pierluigi Cuccitto, nato a Urbino il 17/09/1981, è laureato in Beni Culturali e Ricerca Storica. Appassionato di fantasy fin dagli 8 anni, grazie ai libri di J.R.R Tolkien e Neil Gaiman, ha sviluppato un interesse per la lettura e la scrittura, aumentato nel tempo in modo continuo.
Ha iniziato a scrivere alcuni brevi racconti in privato nel 2005, prime grezze prove per trovare uno stile. Il primo libro pubblicato, con Sigismundus Editrice, è del 2013, dal titolo “Lo specchio è oltre”, una piccola favola fantasy, a metà tra “La storia infinita” e “Alice nel paese delle meraviglie”.
“Il ragazzo in ritardo”, edito da Tabula Fati nel 2017, è il suo primo romanzo.
Ed ora, un estratto da Il ragazzo in ritardo.
“Quella meravigliosa estate finì, e ognuno tornò alle proprie
vite.
Stava per iniziare un anno importante: sarebbe stato il mio
primo anno di scuola, e io ero parecchio teso: avevo solo sei anni,
ma già avevo subìto gli “appunti per il mio bene” della maestra
d’asilo, e non sapevo cosa aspettarmi dalla Scuola di Base, che
tutti dicevano essere più severa e complicata.
Mi aspettavano quattro lunghi anni, e in cuor mio speravo di
non essere troppo storto, e di raddrizzarmi un po’.
Anche per mia mamma sarebbe stato un anno importante,
perché avrebbe finalmente iniziato a insegnare Storia delle Visioni
del Mondo all’Istituto Superiore Umano, la scuola per i ragazzi
dagli undici ai diciassette anni, e anche lei era molto emozionata.
Finalmente i tanti anni di studio appassionato e faticoso avrebbero
potuto essere messi a frutto. Così, tutti e due eravamo tesi come
due corde di violino.
Io sentivo che lei cercava di fare finta di niente per me, per
farmi iniziare al meglio la Base; ma capivo che per lei era un
grande sforzo, anche perché mio padre non c’era più. Sarebbe stato
un grande conforto, e io potevo cercare di aiutarla in tutti modi
possibili, ma che cosa può un bambino di sei anni, per giunta
sempre in ritardo, di fronte all’indelebile ricordo di un giovane
uomo di trentasette anni?
Immersi in questa strana e palpitante atmosfera, trascorremmo
spesso insieme gli ultimi giorni di Settembre, camminando per
i boschi sopra la nostra casa, che si trovava alla fine della zona
centrale di Seraya: era una piccola casa presa in affitto da una
strana signora vestita di blu, che portava sempre grandi occhiali
da sole, in qualsiasi stagione. La nostra casa era al secondo piano,
e ci si arrivava percorrendo vecchie e grigie scale: aveva un piccolo
portoncino di legno marrone, e una grande porta a vetri all’interno,
che ti introduceva a vaste e ampie stanze sulla destra, che
erano lì da tanto tempo, perché erano state la dimora di un vecchio
nobile caduto in disgrazia, Philip Selim, morto vent’anni prima;
sulla sinistra c’erano una piccola sala e una cucina più moderne,
che mio padre aveva comprato con tanti sforzi… inutili, per lui.
Quanto mi sembrava grande, allora, quella casa, e quanto mi
sembra minuscola ora, dopo averla vista di recente! Ora non ci
abita più nessuno. La vecchia signora è morta da tempo, e il suo
giardino lussuoso nel quale camminava solitaria e silenziosa con
un libro in una mano e una sigaretta nell’altra ora è spoglio e vuoto.
Stavamo bene in quella casa, così vicina ai boschi: sopra di noi si
potevano vedere gli imponenti Monti Darràt, e se uno voleva, da
un piccolo sentiero dietro la nostra casa, partiva una lunghissima
salita, che portava a un piccolo boschetto di cedri. Lì c’era un
piccolo spiazzo tranquillo, senza nessuno intorno, dove si poteva
stare un po’ in pace.
Da quel boschetto partiva il grande Sentiero Moxey, che
portava fino in cima ai Monti Darràt. Era una bella camminata, e
mia mamma amava camminare, con le sue lunghe gambe, e mi
promise che un giorno saremmo andati fin lassù. Io sorrisi, e
annuii entusiasta: nonostante fossi storto, e le mie gambe inciampassero
a volte l’una contro l’altra, amavo molto camminare e non
mi stancavo facilmente.
«Un giorno scalerò la montagna più alta del mondo,» dissi
serio, e mia madre sorrise, scompigliandomi i capelli.
«Ce la farai, Oneya, è certo,» disse.
Sorrisi, perché Oneya era un termine della lingua Ronya, il
popolo di mia madre, che significa Roccia: i Ronya usano dare un
Nome Profezia a ognuno, che mostra un augurio e una speranza
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per il futuro.
Il mio era quello, quindi: resistere alle difficoltà e alle intemperie
della vita, per giungere a una cima splendida e luminosa.
Promisi a me stesso che avrei reso vera quella profezia.
«Grazie, Senya,» risposi, e mia mamma sorrise, abbracciandomi
forte.
Senya vuol dire Lume. Era il Nome Profezia di mia madre, e
mai nome fu più meritato.
Una luce che ha sempre illuminato gli angoli più bui”.